In questo articolo, cercheremo di far luce sulla tristemente nota vicenda processuale relativa al caso “Marco Cappato/Dj Fabo”.
Ripercorrendo brevemente gli aspetti storici della questione, si rammenta che lo stesso Cappato, dopo aver prospettato a Fabiano Antoniani (Dj Fabo) – rimasto cieco e tetraplegico a seguito di un grave incidente automobilistico – la possibilità di sottoporsi in Italia ad intervento di “sedazione profonda”, attraverso l’interruzione dei trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale, aveva poi accompagnato in Svizzera il medesimo Antoniani al fine di offrire assistenza alla “morte volontaria”.
Il fermo intento di Fabiano di porre fine alla propria esistenza tramite “suicidio assistito”, che egli stesso definiva come “una liberazione”, era da individuarsi nel proprio stato di continua e intollerabile sofferenza, oltre alla mancata autonomia del medesimo nell’espletamento delle primarie funzioni fisiologiche (respirazione, alimentazione, evacuazione etc.), pur avendo conservato intatte tutte le facoltà intellettive e, pertanto, nella piena capacità di intendere e di volere.
A seguito del decesso avvenuto presso la clinica elvetica, Marco Cappato si era autodenunciato alle Forze dell’Ordine. Successivamente, era stato imputato per il reato di cui all’art. 580 cod. pen. (che punisce “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione…”), tanto per aver rafforzato il proposito di suicidio di Dj Fabo, quanto per averne agevolato l’esecuzione.
Nel corso del procedimento penale, la Corte d’Assise di Milano aveva sollevato dubbi di legittimità costituzionale della norma censurata (art. 580 cod. pen.), principalmente nella parte in cui vengono incriminate le condotte di aiuto al suicidio anche quando esse non abbiano contribuito a determinare o a rafforzare il proposito della vittima, per ritenuto contrasto con gli artt. 2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Pertanto, la questione veniva sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale.
Il 25 settembre scorso, la Corte ha sentenziato per la non punibilità. Ad oggi, in attesa del deposito della medesima sentenza e delle sottese motivazioni integrali, l’Ufficio stampa ha pubblicato il seguente comunicato: ” […] la Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.“
Nel suddetto comunicato si legge, inoltre, che la Corte – auspicando un indispensabile e tempestivo intervento del Legislatore sulla materia – ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua” (di cui alla Legge n. 219/2017) ed alla “verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente.”
Peraltro, la Corte aveva analizzato già nell’ordinanza n. 207/2018, emessa in relazione allo stesso caso, alcuni aspetti peculiari della questione. In particolare, già in quella sede, la Corte, pur non ritenendo l’incriminazione dell’aiuto al suicidio incompatibile con la Costituzione (né in contrasto con la CEDU), aveva tuttavia evidenziato che in ipotesi simili a quello sottoposto al vaglio (ossia, una persona affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, e tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale pur mantenendo la capacità di effettuare decisioni libere e consapevoli) “l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost.“.
Quanto detto si pone in ossequio alla Legge 22 dicembre 2017, n. 219, (in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) posta a tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona. Tale disposizione riconosce espressamente ad ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, anche se strettamente necessario alla propria sopravvivenza, ivi compresi i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale.
Inoltre, nella predetta ordinanza, la Corte aveva auspicato l’introduzione di una normativa che potesse dare attuazione alla decisione di alcuni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso il rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche attraverso la somministrazione di un farmaco idoneo a provocare la morte.
Pertanto, in base a tali considerazioni la Corte aveva lasciato chiaramente trasparire l’esigenza di introdurre una disciplina specifica per le vicende analoghe a quella di specie, inviando contestualmente un monito al Parlamento affinché venisse colmata la lacuna normativa.
Inspiegabilmente, a distanza di circa un anno, ciò non è ancora avvenuto.
A parere di chi scrive, quanto affermato dalla Corte si pone come un enorme passo in avanti rispetto al passato in quanto, seppur indirettamente, viene ridimensionato il disvalore etico accostato in termini assoluti ad un gesto tanto grave ed irreversibile come il suicidio, lasciando trasparire – al contempo – una sensibilità matura e profonda nei confronti del dolore altrui e un atteggiamento di deferenza rispetto al preminente principio di autodeterminazione individuale, seppur con evidenti limitazioni e nell’osservanza di determinate condizioni.
Si rimane in attesa del deposito della sentenza per ulteriori approfondimenti e considerazioni.
Avv. Michele Funari
“Proprio come sceglierò la mia nave quando mi accingerò ad un viaggio, o la mia casa quando intenderò prendere una residenza, così sceglierò la mia morte quando mi accingerò ad abbandonare la vita.”
(Lucio Anneo Seneca).