L’ergastolo ostativo e il futuro dell’antimafia

Oggi affronteremo il tema dell’ergastolo ostativo alla luce della recente sentenza della Corte Edu, cercando di spiegare anche ai non addetti ai lavori di che cosa si tratta e perché ha suscitato tanto clamore nell’opinione pubblica. Sullo sfondo si scorge in filigrana la più ampia riflessione sul futuro degli strumenti di contrasto al fenomeno mafioso adottati dalla Repubblica italiana all’indomani delle stragi degli anni ’90.

Il tema è assai complesso per cui cercherò di renderlo chiaro a tutti con l’auspicio di offrire un ulteriore strumento di analisi e riflessione. La sentenza della Corte Edu, di cui al momento non sono state ancora pubblicate le motivazioni, ha sancito la contrarietà dell’ergastolo ostativo (art. 4 bis Legge ordinamento penitenziario) all’art. 3 CEDU, in quanto tale misura carceraria risulta contrastante con il divieto di irrogazione di pene inumani o degradanti.

Ma che cos’è l’ergastolo ostativo?

Tecnicamente si tratta dell’impossibilità per il condannato per i reati di cui all’art. 416 bis cod. pen. (associazione per delinquere di stampo mafioso) di accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, normalmente appannaggio dei condannati all’ergastolo per altri reati.

Tale impossibilità, però, non riveste il carattere dell’assolutezza, giacché il condannato può godere dei suddetti benefici collaborando con la giustizia, cioè aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati.

Il meccanismo appena descritto trova la sua ragion d’essere nella natura stessa del fenomeno mafioso, in cui non è previsto un recesso dal sodalizio criminale se non attraverso un formale ed effettivo allontanamento dalla consorteria criminale (o, in alternativa, con l’eliminazione fisica dell’associato). Di ciò erano consapevoli gli artefici dell’introduzione nell’ordinamento penitenziario di questa particolare misura – tra cui il Dott. Falcone – i quali tendevano ad incentivare l’aumento dei collaboratori di giustizia per sterilizzare una delle principali caratteristiche dei sodalizi criminali mafiosi (indipendentemente dal loro connotato territoriale): l’omertà.

Se, dunque, da un lato l’ergastolo ostativo si pone come peculiare ed efficace strumento di lotta alla mafia, dall’altro occorre valutarne la sua tenuta all’interno dell’ordinamento giuridico globalmente considerato, a partire dalla Carta costituzionale e dai trattati internazionali cui ha aderito il nostro Paese (tra cui, naturalmente, la CEDU).

Infatti, proprio sotto questo profilo, la misura in esame è stata oggetto di scrutinio da parte della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione, le quali in più di un’occasione ne hanno stabilito la legittimità, confermandone il diritto di cittadinanza all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale. Tuttavia, il controllo da parte delle Corti nazionali non è sufficiente, giacché le misure introdotte dalla legislazione nazionale – anche quelle generalmente considerate massima espressione della sovranità come il diritto penale e penitenziario – sono soggette al rispetto degli obblighi derivanti dall’adesione ai trattati internazionali (tale preciso obbligo è sancito dall’art. 117 Cost.).

E’ sulla scorta di queste considerazioni che la Corte EDU è intervenuta, all’uopo appositamente sollecitata dal Sig. Viola, cittadino italiano condannato per reati di mafia alla pena dell’ergastolo ostativo, affermando l’incompatibilità dello strumento in esame con il divieto di irrogazione di pene disumane o degradanti di cui all’art. 3 CEDU.

Evitando di calare l’analisi in tecnicismi che allontanerebbero i lettori, snaturando l’essenza stessa della nostra rubrica, cercherò di spiegare in maniera intellegibile il percorso logico seguito dalla Corte di Strasburgo.

Il quesito di fondo sul quale si è interrogata la Corte è il seguente: l’ergastolo ostativo è al pari delle altre misure carcerarie riducibile? In concreto, dunque, è offerta al detenuto una prospettiva di liberazione e una possibilità di riesame da parte della magistratura di sorveglianza?

Sotto un profilo formale – questa la valutazione della Corte – è senz’altro vero che il detenuto ben potrebbe ottenere i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario semplicemente ponendo in essere una condotta collaborativa, aiutando l’Autorità giudiziaria a raccogliere elementi decisivi per la ricostruzione delle dinamiche interne del sodalizio criminale cui appartiene.

Tuttavia, sotto un profilo sostanziale, la Corte ha ritenuto che subordinare la concessione dei benefici premiali al solo elemento della collaborazione effettiva con l’Autorità giudiziaria si risolva di fatto nella somministrazione di una pena perpetua, insuscettibile di modifiche e perciò priva dell’imprescindibile carattere rieducativo.

Inoltre, secondo la Corte di Strasburgo la mancanza di collaborazione non può essere sempre imputata ad una scelta libera e volontaria, né giustificata soltanto dalla persistenza dell’adesione ai «valori criminali» e al mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza, potendo dipendere – come sostenuto dal ricorrente Sig. Viola – dal timore di rappresaglie per lui e per la sua famiglia.

A ben vedere, quindi, l’immediata equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale finisce per non corrispondere al percorso reale di rieducazione del condannato, poiché avallare una simile presunzione assoluta finisce per non valorizzare il reale percorso di rieducazione intrapreso dal soggetto.

Per queste ragioni, in sintesi, la Corte EDU ha ritenuto incompatibile con l’art. 3 CEDU l’ergastolo ostativo, esso risolvendosi di fatto nell’irrogazione di una pena perpetua che, in quanto tale, è inammissibile nel contesto rieducativo e risocializzante cui deve tendere il sistema penale.

Pertanto, anche il percorso rieducativo dei condannati in regime di ergastolo ostativo, al pari degli altri condannati, deve essere suscettibile di valutazione da parte dell’organo a ciò preposto, la magistratura di sorveglianza, così valorizzando pienamente la funzione rieducativa della pena.

Queste le conclusioni raggiunte dai giudici di Strasburgo.

Si tratta senz’altro di una fine analisi giuridica che tiene conto della cornice costituzionale e sovranazionale entro la quale deve necessariamente agire il legislatore. Tuttavia occorre a mio avviso sollevare alcuni punti critici della sentenza, sia di merito che di metodo, indebitamente trascurati dalla Corte EDU.

Sotto il primo profilo, è errato ritenere che l’attuale sistema di correzione previsto dall’art. 4 bis non offra alcuna scelta al detenuto. A ben vedere, infatti, egli può accedere a tutti i benefici premiali previsti dall’ordinamento penitenziario semplicemente ponendo in essere l’unica condotta idonea a dimostrare in maniera tangibile l’effettiva rieducazione: la collaborazione con la giustizia.

In altri termini, l’unico modo per fuoriuscire dal sodalizio criminale di tipo mafioso – escludendo i casi di eliminazione fisica dell’affiliato – è la collaborazione con le autorità inquirenti, giacché solo così il membro dimostra ai suoi (ex) sodali e alla comunità statuale la sua effettiva volontà di resipiscenza. 

Non riconoscere questa evidenza significa ignorare i meccanismi di funzionamento e le dinamiche tipiche del fenomeno mafioso, il quale per la sua peculiarità non può essere affrontato alla stregua di altre fattispecie criminose.

Sotto il profilo metodologico, invece, “scaricare” il destino dei condannati all’ergastolo ostativo sulle spalle della sola magistratura di sorveglianza appare abnorme.

Per  comprendere meglio proviamo a ribaltare la prospettiva: se è vero che il condannato membro (o addirittura capo) dell’associazione mafiosa non collabora per il fondato timore di subire rappresaglie, non è altrettanto ragionevole prevedere che lo stesso possa accadere in capo al magistrato di sorveglianza tenuto a decidere del destino del condannato? D’altro canto le associazioni criminali di stampo mafioso hanno tutti gli strumenti per esercitare pressioni sugli organi dello Stato, fino ad arrivare alle minacce e alla eliminazione fisica del “nemico”.

La grande differenza risiede nella scelta: il membro dell’associazione di stampo mafioso, a differenza del magistrato di sorveglianza, ha scelto di aderire ai “valori” e al sistema di potere incarnato da quella tipologia di sodalizio, accettando di conseguenza tutti i rischi che tale scelta comporta.

E allora appare quantomeno paradossale che i rischi connaturati a quella “scelta di campo” vengano trasferiti in capo a soggetti che, al contrario, hanno fatto una scelta diametralmente opposta, nel nome di una risocializzazione “senza se e senza ma”.

In ogni caso la questione è tutt’altro che definita: sul tema, infatti, si pronuncerà il prossimo 22 ottobre la Corte costituzionale, il cui pronunciamento offrirà senz’altro altri spunti di riflessione.

Avv. Alessandro Ceci

 

“Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi” Dott. Giovanni Falcone

 

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