“Nel naufragio dei tempi, il diritto ha afferrato il salvagente della forma.”
(“Il salvagente della forma”, Natalino Irti)
Come è tristemente noto, nel mondo del Diritto, troppo spesso i due termini di “forma” e “sostanza” sono in conflitto tra loro, ponendosi sovente in perenne antitesi.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), con la sentenza del 28 ottobre 2021 (sul ricorso n. 55064/11 e altri 2), esprimendosi sull’eccessivo formalismo adottato dai giudici della Cassazione, ha condannato lo Stato italiano per l’interpretazione eccessivamente formalistica dei criteri di redazione dei ricorsi in Cassazione in violazione del diritto di accesso alla giustizia previsto dall’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il quale sancisce il diritto di ogni persona a un processo equo.
Il caso di specie (ricorso n. 55064/11) conteneva elementi in comune con altri due ricorsi (nn. 37781/13 e 26049/14) presentati da altri soggetti e, pertanto, tenuto conto dell’affinità dell’oggetto delle domande dei tre ricorsi, la Corte ha ritenuto opportuno esaminarli congiuntamente in un’unica sentenza.
La querelle, relativa al ricorso n. 55064/11, traeva origine da una pronuncia della Corte di Cassazione che aveva dichiarato inammissibile il ricorso presentato da un soggetto in quanto:
- il ricorrente non aveva richiamato per ciascun motivo uno dei cinque casi previsti dall’art. 360 c.p.c. (ossia, mancava l’indicazione specifica dei vizi della sentenza);
- il ricorrente aveva omesso di riportare le indicazioni necessarie per individuare i documenti menzionati a sostegno delle critiche esposte nei motivi di ricorso.
Invero, nella sentenza in esame, la Corte EDU ha rilevato che sulla base del ricorso per Cassazione era possibile comprendere sia l’oggetto e lo svolgimento della causa dinanzi alle precedenti giurisdizioni di merito, sia il contenuto ed il fondamento giuridico dei motivi di ricorso, anche grazie ai rinvii fatti alla sentenza della Corte d’appello e ai documenti citati nel ricorso per Cassazione stesso.
Pertanto, il rigetto del ricorso ha pregiudicato il diritto di accesso alla giustizia sulla base dell’applicazione di un formalismo eccessivo che non può trovare giustificazione nel principio di “autosufficienza” del ricorso per Cassazione posto a garanzia della certezza del diritto e della corretta amministrazione della giustizia.
Tale impostazione procedurale, come accennato, trova la propria fonte nel principio di autonomia (o di “autosufficienza”) in base al quale, in estrema sintesi, la Corte di Cassazione deve poter comprendere il contesto della causa e le domande delle parti interessate senza dover fare riferimento ad altre fonti scritte.
In sostanza, si potrebbe parlare di un principio volto ad evitare che un carico processuale eccessivo possa ostacolare l’attività istituzionale di un tribunale.
Nel caso in esame, però, il richiamo al principio di autosufficienza non è stato ritenuto pertinente, giustificato e corretto.
In particolare, la Corte EDU non ha condiviso la pronuncia di inammissibilità della Corte di Cassazione e, in conformità a precedenti pronunce del medesimo segno, ha affermato che: “ Anche se il carico di lavoro della Corte di cassazione descritto dal Governo può causare difficoltà al normale funzionamento della trattazione dei ricorsi, resta comunque il fatto che le restrizioni dell’accesso alle corti di cassazione non possono limitare, attraverso un’interpretazione troppo formalistica, il diritto di accesso a un tribunale in modo tale o a tal punto che il diritto sia leso nella sua stessa sostanza (cfr., Zubac; Vermeersch c. Belgio , n° 49652/10, 16 febbraio 2021, Efstratiou e altri c. Grecia , n° 53221/14, 19 novembre 2020, Trevisanato).”.
Ne deriva che nel caso esaminato i criteri previsti dal codice di procedura civile di redazione del ricorso in Cassazione sono stati applicati in maniera eccessivamente formalistica con conseguente violazione dell’art. 6 CEDU.
Inoltre, la Corte EDU, sempre in riferimento al ricorso n. 55064/11, ha dichiarato che lo Stato italiano dovrà corrispondere al ricorrente la somma pari ad € 9.600,00 a titolo di danno morale.
In conclusione, se da un lato, potrebbe risultare condivisibile la ratio sottesa alle predette limitazioni applicate ai ricorsi, secondo cui l’operatività del principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione sia posta a presidio della corretta amministrazione della giustizia, del rispetto di termini ragionevoli, della maggiore rapidità nell’esame delle cause pendenti, della garanzia della certezza del diritto, è pur vero che un’interpretazione giuridica eccessivamente rigida e formalistica non può (e non deve) in alcun modo andare a ledere in maniera paradossale diritti soggettivi dei singoli, limitando di fatto, o rendendo più arduo, l’accesso alla giustizia.
Una soluzione alternativa e maggiormente indolore potrebbe essere forse ricercata in altre direzioni. Ad esempio incrementando il personale preposto all’amministrazione della giustizia
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