La fine di una relazione comporta sempre degli strascichi importanti, tanto più se dall’unione sono stati generati dei figli.
Spesso, nonostante le buone intenzioni dei due interessati, le conseguenze più importanti e più traumautiche si riverberano sulla prole che, volente o nolente, diventa pomo della discordia, tirata da un parte e dall’altra al pari di una fune troppo fragile, però, per non spezzarsi.
Per questo motivo, il diritto di famiglia ha predisposto degli strumenti di tutela per i figli minori, muovendo dalla premessa secondo la quale il minore degli anni 18 si trova in un momento di fragilità e di minorata capacità di discernimento e per tali motivi le istituzioni, prima fra tutte la famiglia, debbono farsi garanti del suo prioritario interesse.
Tale interesse si estrinseca nel diritto alla bigenitorialità che non è un diritto degli adulti ma un diritto indisponibile dei minori.
Un diritto questo che è l’altra faccia della medaglia della speculare responsabilità genitoriale.
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Perimetro normativo e definizioni
Occorre intanto considerare che tutto ciò che afferisce ai diritti dei fanciulli è materia piuttosto recente. Nel Novecento da una visione adulto-centrica si è passati a una prospettiva bambino-centrica e, di conseguenza, sono sorti, in capo ai minori, tutta una serie di diritti strumentali alla loro tutela e al loro corretto e armonioso sviluppo psicofisico.
Fra i primi riconoscimenti, il più importante, è la Dichiarazione di Ginevra del 1924 attraverso la quale vi è un primo e vero riconoscimento della condizione di fanciullo che viene individuato quale destinatario passivo dei diritti e non ancora di essi pienamente titolare.
I suoi cinque, scarni, articoli assumono le vesti di affermazioni di principio che l’Assemblea delle Nazioni rivolge non ai singoli Stati, bensì all’umanità intera affinché non disconosca ancora i diritti dei fanciulli.
Un autentico riconoscimento giuridico dei diritti del minore si ha solo con la proclamazione, ad opera dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riunita a Parigi il 10 dicembre del 1948, della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo. Nel quadro dei diritti umani delineato dalla Convenzione, i minori sono persone che, in virtù dell’età e della loro vulnerabilità, necessitano di una tutela specifica.
Nel 1959 la vera rivoluzione, però, è espressa dalla Dichiarazione dei diritti del fanciullo che vede, per la prima volta il minore come titolare di diritti di cui prima era solo destinatario passivo.
Fra questi i principi che assicurano il diritto del minore ad essere ascoltato e ad esprimere la propria opinione quando debbano essere assunti dei provvedimenti che lo riguardano (art. 12) e il principio del suo “intérêt supérieur“.
Tale espressione, destinata ad essere ampiamente e variamente declinata nelle disposizioni normative a tutela del fanciullo, diviene il criterio guida per l’adozione delle decisioni che concernono il minore (art. 3).
Come indicato nel suo testo, tale interesse deve essere “primordiale” e rivolgersi tanto ai genitori che assumono le scelte relative ai minori nell’esercizio della responsabilità genitoriale, quanto alle autorità nei procedimenti che li riguardano.
Dalla Dichiarazione dei diritti del fanciullo, vera e propria rivoluzione nel panorama mondiale, nel 2000 si arriva alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (adottata a Strasburgo nel 2007) che, all’art. 24 sancisce a favore del minore il diritto di esprimere liberamente la propria opinione, in funzione dell’età e del grado di maturità (paragrafo 1), il diritto al riconoscimento del suo superiore interesse quale “primordiale” (paragrafo 2) e il diritto di intrattenere relazioni personali e contatti diretti con entrambi i genitori (paragrafo 3).
Da tale ultima disposizione si evincono chiaramente i connotati principali del diritto alla bigenitorialità.
Nel panorama nazionale con Legge n. 54/2006 vi è finalmente il riconoscimento del principio alla bigenitorialità, con riconoscimento della pariteticità delle figure genitoriali maschile e femminile, con elisione della definizione di potestà genitoriale per l’accoglimento della più corretta responsabilità genitoriale. Non più potere dei genitori sui minori, ma doveri di responsabilità di entrambi, allo stesso modo e nella stessa misura, nella cura, nell’educazione, nell’istruzione, nel mantenimento dei figli minori di età.
Da qui cessa di esistere, in caso di separazione, divorzio o fine di una relazione, l’affidamento esclusivo per lasciare posto all’affidamento congiunto.
Vi è da aggiungere che tale novità, seppur recepita dalla giurisprudenza nazionale, non ha impedito una serie di problematiche nascenti anche da questioni pratiche e/o anche da strascichi rancorosi fra i genitori.
E ciò vieppiù in costanza di un affidamento congiunto con collocamento presso uno dei due genitori (spesso la madre) che comporta, sia in assenza, sia in presenza dell’accordo fra i due genitori, una decisione – di frequente in favore della madre – da parte del giudice a norma dell’art. 337 ter c.c. (inserito dalla l. 54/2006) che, invece, dovrebbe tenere conto principalmente del preminente interesse del minore.
Tale norma al comma 1 testualmente dispone:
Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
A ciò deve aggiungersi, per essere elemento innovativo apportato dalla l. 54/2006, quanto stabilito dall’art. 709 ter c.p.c. che assicura una serie di poteri del giudice in caso di inadempimenti gravi da parte dei genitori in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale.
Risvolti giurisprudenziali e conclusioni
Come anticipato in premessa è chiaro che, nonostante la legge disponga la parità dei genitori e ancor di più affermi e sostenga il diritto del figlio di poter stabilire una rapporto affettivo continuativo ed equilibrato con entrambi, accada spesso purtroppo che un genitore, in genere quello presso cui il figlio risiede ed è collocato prevalentemente, tenda ad ostacolare, a volte anche gravemente, il rapporto del figlio con l’altro genitore fino a elidere permanentemente il legame naturale fra i due.
Tale comportamento, sebbene lesivo anche del diritto del genitore che lo subisce, è in realtà una gravissima lesione del principio della bigenitorialità e, dunque, in ultima analisi del minore stesso.
Una lesione così grave da giustificare potenzialmente conseguenze altrettanto pesanti per il genitore che l’ha realizzata, sino ad arrivare alla decadenza dalla responsabilità genitoriale e all’allontanamento del minore dalla casa del genitore inadempiente.
Vi è però da valutare che, talune decisioni, nonostante appaiano riequilibrative dei diritti genitoriali, non sempre sono assunte nel preminente interesse del minore che in tal modo rischia di perdere quell’unico contatto riconosciuto come figura genitoriale.
In altri termini, nonostante la lesione del diritto alla bigenitorialità abbia investito tanto il genitore, quanto il figlio, avendo entrambi patito la medesima e ingiusta privazione, essi non possono essere trattati dall’ordinamento in maniera paritetica. E ciò per l’ovvia ragione per cui l’uno è adulto, l’altro è un minore i cui diritti e interessi debbono essere sempre al centro di ogni decisioni.
Pertanto, il giudice per garantire e tutelare il principio alla bigenitorialità, deve analizzare attentamente la situazione concreta, selezionando i provvedimenti che risultino comunque meno lesivi per il minore.
Di questo avviso anche l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 9691 del 24.03.2022 che così dispone:
La Prima Sezione Civile, in tema di filiazione, ha affermato che la violazione del diritto alla bigenitorialità da parte del genitore che ostacoli i rapporti del figlio con l’altro genitore, e la conseguente necessità di garantire l’attuazione di tale diritto, non impongono necessariamente la pronuncia di decadenza del genitore malevolo dalla responsabilità genitoriale e l’allontanamento del minore dalla sua residenza, quali misure estreme che recidono ineluttabilmente ogni rapporto, giuridico, morale ed affettivo con il figlio, essendo necessaria la verifica, nell’interesse del minore, della possibilità che tale rimedio incontri, nel caso concreto, un limite nell’esigenza di evitare un trauma, anche irreparabile, allo sviluppo fisico-cognitivo del figlio, in conseguenza della improvvisa e radicale esclusione di ogni relazione con il genitore con il quale ha sempre vissuto, coltivando i propri interessi di bambino, e della correlata lacerazione di ogni consuetudine di vita.
L’ordinanza citata pone evidentemente dei limiti e impone un vaglio di opportunità e necessità circa le decisioni da assumersi nei confronti dei minori dettato in primo luogo dalla loro prioritaria tutela.
Tutela che spesso viene violata proprio da coloro i quali, per natura e per legge, dovrebbero proteggerli.