Di Nomos Law Firm
Occorre innanzitutto definire questi due concetti: licenziamento per giusta causa da un lato e indennità di disoccupazione (NASPI) dall’altro.
Licenziamento per giusta causa
Si tratta della fattispecie disciplinata dall’art. 2119 cod. civ., a mente del quale:
“Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente.
Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto la liquidazione coatta amministrativa dell’impresa. Gli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro sono regolati dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”.
Con tale atto il datore di lavore recede unilateralmente dal rapporto di lavoro, determinando la cessazione dello stesso. I casi per cui si può ricorrere a questa modalità di recesso sono indicativamente i seguenti:
- Falsa malattia o falso infortunio del lavoratore;
- Diffamazione dell’azienda;
- Minacce nei confronti del datore o dei colleghi;
- Furto di beni aziendali
In generale ogni qualvolta il lavoratore si renda gravemente inadempiente rispetto alle obbligazioni assunte con il proprio datore di lavoro, tanto da rendere impossibile la prosecuzione del rapporto.
NASPI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego)
La Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI) è una indennità mensile di disoccupazione, istituita dall’articolo 1, decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 – che sostituisce le precedenti prestazioni di disoccupazione ASpI e MiniASpI – in relazione agli eventi di disoccupazione involontaria che si sono verificati a decorrere dal 1° maggio 2015. La NASpI viene erogata su domanda dell’interessato.
I requisiti per accedere a tale indennità sono:
- Requisito contributivo: almeno 13 settimane di contribuzione contro la disoccupazione nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione. Per contribuzione utile si intende anche quella dovuta, ma non versata, e sono valide tutte le settimane retribuite, purché risulti erogata o dovuta per ciascuna settimana una retribuzione non inferiore ai minimali settimana;
- stato di disoccupazione involontario e dichiarazione di immediata disponibilità da inviare con modalità telematica al portale nazionale delle politiche del lavoro. Sono equiparati allo disoccupazione involontaria:
- dimissioni per giusta causa, qualora le dimissioni non siano riconducibili alla libera scelta del lavoratore ma siano indotte da comportamenti altrui che implicano la condizione di improseguibilità del rapporto di lavoro (circolare INPS 20 ottobre 2003, n. 163);
- dimissioni intervenute durante il periodo tutelato di maternità, ossia a partire da 300 giorni prima della data presunta del parto e fino al compimento del primo anno di vita del bambino;
- risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, purché sia intervenuta nell’ambito della procedura di conciliazione presso la direzione territoriale del lavoro secondo le modalità di cui all’articolo 7, legge 15 luglio 1966, n. 604 come sostituito dall’articolo 1, comma 40, legge 92/2012;
- risoluzione consensuale a seguito del rifiuto del lavoratore di trasferirsi presso altra sede della stessa azienda distante più di 50 chilometri dalla residenza del lavoratore e/o mediamente raggiungibile con i mezzi pubblici in 80 minuti o più;
- licenziamento con accettazione dell’offerta di conciliazione di cui all’articolo 6, decreto legislativo 22/2015;
- licenziamento disciplinare.
Indice dei contenuti
Come farsi licenziare per non perdere la disoccupazione?
Per non perdere la disoccupazione è sufficiente trovare un accordo con il proprio datore di lavoro attraverso il quale il lavoratore viene licenziato.
Come visto sopra, infatti, tutte le ipotesi di perdita involontaria della disoccupazione danno accesso alla naspi, tra le quali, ovviamente, rientrano anche i casi di licenziamento.
Tuttavia, in alcuni casi, non è facile trovare l’accordo con il proprio datore di lavoro: in queste ipotesi taluni ricorrono alla pratica, assolutamente non consigliabile, di attuare una condotta contraria al codice disciplinare e “constringere” in tal modo il datore a procedere con il licenziamento disciplinare.
Tale prassi – benché dia accesso alla Naspi – è sconsigliabile in quanto se opportunamente provato potrebbe determinare la condanna del lavoratore al pagamento del cd. Ticket per il licenziamento, ovverosia dell’emolumento che il datore di lavoro deve corrispondere all’INPS per tutti i casi di licenziamento che ammonta al 41% del massimale mensile di Naspi per ogni 12 mesi di anzianità aziendale.
Anche la giurisprudenza, di recente, ha sanzionato questa condotta illecita del lavoratore, stabilendo l’obbligo del pagamento in capo al lavoratore laddove il licenziamento sia stato determinato dalle reiterate assenze ingiustificate tali da costringere il datore alla risoluzione per giusta causa (Sent. Trib. Udine, Sezione Lavoro, 30 settembre 2020, n. 106).
Dunque si consiglia sempre di addivenire ad un accordo col proprio datore di lavoro, in modo tale da non perdere il diritto alla Naspi per non esporsi a conseguenze pregiudizievoli.
Per non perdere il diritto alla Naspi il lavoratore può invece senz’altro ricorrere del tutto legittimamente alle cd. dmissioni per giusta causa.
Tale fattispecie ricorre nelle seguenti ipotesi:
- demansionamento;
- mancato pagamento della retribuzione;
- trasferimento del lavoratore da una sede ad un’altra in assenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive previste dall’art. 2103 c.c.;
- notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione di azienda;
- mobbing, inteso quale crollo dell’equilibrio psico-fisico del lavoratore, dovuto a comportamenti vessatori da parte dei colleghi o dei suoi superiori;
- comportamento ingiurioso assunto dal superiore gerarchico;
- molestie sessuali sul posto di lavoro.
In tutti questi casi la perdita del lavoro, nonostante sia formalmente determinata da un atto volontario del lavoratore (dimissioni), viene comunque considerata involontaria e, quindi, lascia intatto il diritto di accedere all’indennità di disoccupazione.
Cosa succede se si viene licenziati per giusta causa?
Come detto in precedenza anche in caso di licenziamento per giusta causa il lavoratore ha diritto di accedere alla Naspi.
Infatti, l’indennità in parola, è subordinata, oltre che al requisito contributivo, allo stato di disoccupazione involontaria, che si concretizza anche nei casi di licenziamento intimato per giusta causa (con le precisazioni svolte nel paragrafo precedente).
Quando il datore di lavoro può licenziare per giusta causa?
Il licenziamento per giusta causa è sostanzialmente un licenziamento intimato per ragioni disciplinari. Pertanto questo dovrà essere intimato a seguito dell’attivazione della consueta procedura disciplinare. Il licenziamento per giusta causa può essere impugnato dal lavoratore in forma scritta entro 60 gg. Dalla sua intimazione, cui dovrà seguire entro i successivi 180 gg. Il deposito del ricorso dinanzi al Tribunale competente.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, invece, è rappresentato dalla crisi dell’impresa, dalla cessazione dell’attività o anche solo dal venir meno delle mansioni cui è assegnato il lavoratore, senza che sia possibile il suo ricollocamento in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con il suo livello di inquadramento.
Al di fuori di queste ipotesi si può parlare di licenziamento illegittimo.
Le tutele offerte al lavoratore – reintegrazione nel posto di lavoro e l’indennità risarcitoria – variano in base al regime normativo applicabile.
In particolare, affinché i lavoratori possano essere reintegrati, per licenziamento illegittimo devono ricorrere le seguenti condizioni:
Il lavoratore deve essere stato assunto antecedentemente al 7 marzo 2015 ed in questo caso si applicano le tutele previste dall’articolo 18 legge 300 (Statuto dei Lavoratori), come modificato dalla legge 92 del 2012;
L’impresa che effettua il licenziamento deve avere oltre 15 dipendenti, per stabilimento, filiale, territorio, o 60 dipendenti in totale.
Se non sussistono entrambe queste condizioni il reintegro è escluso.
Oltre alla reintegrazione, nel caso di “licenziamento illegittimo” il Giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno, che corrisponde alle mensilità non percepite dall’illecito licenziamento sino alla reintegra, oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali.
Per tutti i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 in avanti (data di entrata in vigore del cd jobs act) si applicano, invece, le tutele previste dal decreto legislativo 23/2015, così come modificato dall’art. 3 L. 96/2018 (di conversione DL n. 87/2018), anch’esse declinate diversamente a seconda delle dimensioni occupazionali dell’azienda.
Dunque, a partire da tale data la reintegrazione nel posto di lavoro è prevista come una tutela del tutto marginale (rispetto a quanto previsto dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori) e trova applicazione solo nei seguenti casi :
- licenziamenti discriminatori, nulli o inefficaci;
- licenziamenti disciplinari di cui venga accertata in giudizio l’insussistenza della violazione contestata al lavoratore;
- licenziamenti intimati in costanza di matrimonio, di gravidanza della lavoratrice, di richiesta di congedo per la malattia del bambino e di congedo per adozione o affidamento.
Fuori da tali ipotesi, in tutti gli altri casi di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo oggettivo illegittimi, il rapporto si estingue comunque e al lavoratore è dovuta unicamente un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a 2 mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, ma comunque non inferiore a 6 mensilità né superiore a 36 mensilità.
La Corte di Cassazione ha previsto che il licenziamento illegittimo, se ingiurioso, può portare al risarcimento del danno morale e del danno all’immagine in favore del lavoratore, il quale potrà ottenere il ristoro di tale pregiudizio nel caso in cui dimostri che l’ingiuria insita nel licenziamento, sia stata pubblicizzata dal datore di lavoro, con conseguente lesione della reputazione del lavoratore.
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