Negli ultimi anni il Legislatore si è trovato di fronte all’opportunità di regolare ciò che pareva dovesse restare senza regole: le unioni civili e le convivenze di fatto.
Difatti, le convivenze “more uxorio”, pur ricalcando di fatto il matrimonio, non trovavano alcun riconoscimento né tutela all’interno dell’ordinamento.
In sostanza, in Italia la famiglia era considerata solo nell’ambito del matrimonio e da questo accordo nascevano e venivano riconosciute tutta una serie di obbligazioni e diritti.
Le convivenze di fatto pur essendo sempre esistite non davano luogo a nessun riconoscimento e, salvo sporadiche eccezioni, a nessuna forma di tutela.
Le cose oggi sono cambiate perché la società è mutata e pertanto il Legislatore ha dovuto rivedere la normativa affinché fosse più vicina alla realtà per prevedere forme di tutela di quelle unioni che, pur non essendo assimilabili al matrimonio, chiedevano riconoscimenti.
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Cosa s’intende per unione civile e convivenza di fatto?
Si tratta di forme di convivenza che si basano su vincoli affettivi ed economici a cui la legge riconosce uno status giuridico simile a quello del matrimonio, pur se non identico.
Il riconoscimento di queste tutele si deve alla L. n. 76/2016 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze – cd. legge Cirinnà) che ha disciplinato due tipologie di “nuove famiglie”.
Da un lato le unioni formate dalle persone dello stesso sesso, prima escluse da qualsiasi forma di tutela, dall’altro disciplina e riconosce le convivenze di fatto fra persone eterosessuali.
Quante tipologie di famiglia esistono oggi?
Dopo la legge Cirinnà esistono in Italia tre tipologie di famiglie:
- Il matrimonio che resta invariato ed è possibile solo fra persone di genere diverso, dal quale scaturisce in capo ai nubendi una serie precisa di obblighi e diritti reciproci e nei confronti della eventuale prole. Dal matrimonio i nubendi acquisiscono lo status di coniuge;
- l’unione civile fra persone dello stesso sesso che sono vincolate da stabili legami affettivi e di reciproca assistenza materiale e morale. Tale unione si celebra innanzi all’ufficiale dello stato civile alla presenza di due testimoni e dà luogo all’acquisizione dello status di familiare unito civilmente;
- la convivenza tra due persone che abbiano compiuto la maggiore età unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile. La qualifica di convivente non dà diritto a nessuno status.
E se l’amore finisce fra gli uniti civilmente?
Come tutte le coppie anche le nuove tipologie di famiglia possono trovarsi di fronte alla impossibilità di prosecuzione del vincolo affettivo.
Se prima del riconoscimento tale evento restava nell’ambito delle scelte private, oggi la fine della relazione acquista una prospettiva pubblica.
Tutto dipende chiaramente dai diritti e doveri riconosciuti a queste nuove tipologie di famiglie.
Se il matrimonio come noto è l’alveo familiare in cui maggiormente le vite dei coniugi risultano concatenate, nelle altre due forme sembra di trovarci di fronte a tutele gradate.
Nella unioni civili i familiari uniti civilmente sono pressoché equiparati ai coniugi, fatta eccezione per alcuni diritti da cui sono esclusi (ad esempio non possono accedere all’istituto dell’adozione).
La fine dell’amore per gli uniti civilmente è possibile nei casi previsti dalla legge per il divorzio dei coniugi.
Non è prevista invece la fase intermedia della separazione poiché in quel caso gli uniti civilmente possono accedere alla procedura di “scioglimento diretto” per effetto della domanda di scioglimento anticipata dalla dichiarazione di volontà, resa tre mesi prima, all’Ufficiale di Stato Civile.
Per le convivenze di fatto cosa accade invece?
Qui la questione è più spinosa poiché, al di là degli interessi dei conviventi, potrebbero esserci anche problematiche relative alla prole eventualmente nata dalla convivenza.
Intanto per quanto attiene ai loro rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune i conviventi di fatto possono disciplinarli mediante un contratto di convivenza.
Il contratto di convivenza, le sue modifiche e la sua risoluzione sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.
Il contratto deve poi essere trasmesso entro 10 giorni al Comune di residenza a cura del professionista che ha autenticato la sottoscrizione affinché questo sia opponibile ai terzi.
Cosa contiene il contratto di convivenza?
Il contratto di convivenza può contenere:
a) l’indicazione della residenza;
b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo;
c) il regime patrimoniale della comunione dei beni che può essere modificato in ogni momento.
Quindi anche nella convivenza si possono far valere gli stessi diritti del matrimonio?
No, salvo che non si sia sottoscritto il contratto di convivenza. Pertanto i conviventi che non abbiano sottoscritto il contratto resteranno privi di tutela rispetto ad eventuali recriminazioni da parte dell’altro convivente circa le modalità di contribuzione alla vita comune.
Ad esempio, una donna che abbia lasciato il proprio impiego per occuparsi della famiglia non potrà vedersi riconosciuto il mantenimento, pur quando idealmente ve ne siano i requisiti, se fra i due conviventi non esiste un contratto di convivenza.
E per i figli nati dalla convivenza cosa accade se i genitori conviventi terminano la relazione?
Intanto occorre specificare che i figli nati fuori dal matrimonio sono equiparati a quelli nati nel matrimonio.
In questo caso l’ordinamento, nel preminente interesse dei minori, ha inteso armonizzare le tutele.
Nel caso di fine della convivenza, non essendo necessario formalizzare attraverso la separazione e il divorzio (al cui interno sono contenuti anche gli accordi per i minori), i due genitori dovranno stabilire le condizioni relative alla prole.
Tali accordi dovranno prevedere – come nel caso di separazione e divorzio – un assegno di mantenimento, il diritto di visita del genitore non collocatario e tutto quanto sia necessario stabilire per assicurare alla prole uno sviluppo sano e armonioso.
Qualora i coniugi siano in accordo sul da farsi allora potranno chiedere al giudice di omologare gli accordi presi. Diversamente invece potranno disgiuntamente proporre ricorso al Tribunale competente affinché sia il giudice, in assenza di accordo, a stabilire quale sia l’assetto di interessi più corrispondente agli interessi dei minori.
I conviventi potrebbero anche evitare di predisporre accordi da far omologare al Giudice, ma a nostro parere e per la nostra esperienza ciò si tradurrebbe in un’assenza di tutela dei figli minori essendo i loro diritti rimessi alla volontà “mutevole” dei genitori.
Non di rado, infatti, ancorché nelle fasi iniziali delle crisi familiari i genitori si dicano concordi nel non coinvolgere i minori, nelle fasi immediatamente successive accade che essi spesso siano messi al centro di una lotta priva di regole. Se nel matrimonio, infatti, le regole sono abbastanza chiare, nelle convivenze non è cosi.
Pertanto è sempre consigliabile rivolgersi a un Avvocato per valutare cosa sia meglio fare in questi casi.
Quanto costa l’ausilio di un Avvocato in queste questioni?
In genere il nostro Studio tende a consigliare di prevenire le liti.
Ad esempio con la sottoscrizione di un contratto di convivenza difficilmente poi si arriva a uno scontro titanico. In quel contratto si possono inserire tutte le clausole che i conviventi vorranno stabilire per loro e per l’eventuale prole.
Come noto prevenire fa risparmiare e pertanto si consiglia di valutare l’opzione al fine di evitare eventuali contenziosi aventi ad oggetto le condizioni di affidamento della prole.
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