
Domande frequenti in materia di tutela dei diritti dei lavoratori
Il lavoratore in nero non corre alcun tipo di rischio in quanto è la parte “debole” del rapporto contrattuale. Infatti è preciso obbligo del datore di lavoro regolarizzare le posizioni dei propri dipendenti. In sintesi, la fattispecie del lavoro irregolare coincide con l’illecita occupazione di lavoratori, la cui assunzione non risulta dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria: a livello pratico, si verte nell’ipotesi di instaurazione di un rapporto di lavoro in evidente violazione di tutte le prescrizioni normative dettate al riguardo, quali, ad esempio, l’omessa comunicazione di assunzione al Centro per l’impiego, l’omessa denuncia nominativa all’INAIL ovvero all’omessa registrazione sul libro matricola che consente agli organi di vigilanza l’immediato riscontro del personale occupato.
I termini di prescrizione dei crediti di lavoro aventi natura retributiva hanno una durata breve (rispetto all’ordinario termine di prescrizione decennale), e nello specifico:
- 5 anni per il trattamento di fine rapporto;
- 3 anni per gli elementi retributivi corrisposti a periodi superiori al mese;
- 1 anno per gli elementi retributivi corrisposti a periodi inferiori al mese.
Il termine inizia a decorrere dal momento in cui lo stesso può essere fatto valere. Al riguardo la Corte di Cassazione ha espresso l’orientamento secondo cui la decorrenza del termine non operi in costanza di rapporto di lavoro, ritenendo che il lavoratore si possa trovare in una condizione di “timore”, tale da indurlo a rinunciare alla pretesa dei propri diritti, almeno fino alla cessazione del rapporto stesso.
Il mobbing (da “to mob” – assalire tumultuosamente) viene definito dallo psicologo svedese Heinz Leymann – uno dei massimi esperti in materia – come “il terrore psicologico sul luogo di lavoro che consiste in una comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa e qui costretto a restare da continue attività ostili.
Queste azioni sono effettuate con un’alta frequenza (almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di tempo (per almeno sei mesi).
A causa dell’alta frequenza e della lunga durata, il comportamento ostile dà luogo a seri disagi psicologici, psicosomatici e sociali”.
Esso può assumere diverse forme: dequalificazione dei compiti assegnati; emarginazione nell’ambito lavorativo; diffusione di notizie false e offensive; attacco all’immagine sociale nei confronti di colleghi e superiori.
Nei casi di mobbing il diritto al risarcimento del danno si prescrive in 10 anni, trattandosi di una violazione di natura contrattuale.
A tal proposito è di estrema rilevanza che – in caso di assenze per malattia – la diagnosi del medico di base, (ad es. depressione, ansia, attacchi di panico, ecc.) attesti – se ricorrono gli estremi – che la patologia è riconducibile al contesto lavorativo.
Si tratta di una categoria di condotta persecutoria solo in parte coincidente con il mobbing. Essa è stata definita come una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer). Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante.
Come per il mobbing, anche nei casi di straining il diritto al risarcimento del danno si prescrive nel termine di 10 anni.
A tal proposito è di estrema rilevanza che – in caso di assenze per malattia – la diagnosi del medico di base, (ad es. depressione, ansia, attacchi di panico, ecc.) attesti – se ricorrono gli estremi – che la patologia è riconducibile al contesto lavorativo.
Il contratto a tutele crescenti è stato introdotto dal Decreto Legislativo n. 23/2015 attuativo del cd. Jobs act (L. n. 183/2014).
Esso si applica a tutti i contratti conclusi a partire dal 7 marzo 2015 e prevede la reintegrazione nel posto di lavoro come una tutela del tutto marginale (rispetto a quanto previsto dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori).
In altri termini la reintegrazione nel posto di lavoro a seguito di licenziamento illegittimo sarà possibile solo nei seguenti casi:
- licenziamenti discriminatori, nulli o inefficaci;
- licenziamenti disciplinari di cui venga accertata in giudizio l’insussistenza della violazione contestata al lavoratore;
- licenziamenti intimati in costanza di matrimonio, di gravidanza della lavoratrice, di richiesta di congedo per la malattia del bambino e di congedo per adozione o affidamento.
Al di fuori di queste ipotesi il licenziamento, benché illegittimo, comporterà il pagamento di una indennità economica variabile a seconda dell’anzianità del lavoratore e delle dimensioni dell’impresa.
Il licenziamento per giusta causa è sostanzialmente un licenziamento intimato per ragioni disciplinari.
Pertanto esso dovrà essere intimato a seguito dell’attivazione della consueta procedura disciplinare.
Il licenziamento per giusta causa può essere impugnato dal lavoratore in forma scritta entro 60 gg. dalla sua intimazione cui dovrà seguire entro i successivi 180 gg. il deposito del ricorso dinanzi al Tribunale competente.
Costituiscono giustificato motivo oggettivo la crisi dell’impresa, la cessazione dell’attività o anche solo il venir meno delle mansioni cui è assegnato il lavoratore, senza che sia possibile il suo ricollocamento in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con il suo livello di inquadramento.
Anche in tali casi, come nelle ipotesi del licenziamento per giusta causa, le tutele del lavoratore variano a seconda delle dimensioni dell’impresa e del regime normativo applicabile.